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Cuore primitivo

Da Mizaar

cuore primitivoNon so per quale oscura ragione la sorella di mio marito, una dolce e affettuosa cognata, è convinta che io abbia, in una graduatoria di scrittori preferiti, posizionato ai primi posti Andrea De Carlo e Dacia Maraini. Ora, se per quest’ultima c’è un fondo di verità – apprezzo la scrittura al femminile della Maraini, ma non sempre è così per tutti i libri che ho letto – per De Carlo il discorso è diverso. Quando venne pubblicato Treno di panna, tanti anni fa, De Carlo era davvero una ventata di novità nell’asfittico panorama italiano, privo di giovani scrittori e di rivelazioni che costituissero la base di un rinnovamento letterario, in Italia, tanto da far scrivere ad Italo Calvino, sulla quarta di copertina del libro “L’insaziabilità degli occhi che vedono lo spettacolo del mondo multicolore ingigantito come attraverso la lente di ingrandimento. È questa la giovinezza che De Carlo racconta.” De Carlo costituiva la risposta italiana, se così si può dire, ai vari Bret Easton Ellis e Jay McInerney. Ha continuato poi a scrivere, a fotografare, a fare l’assistente regista, il musicista, il giudice in un talent show eccetera eccetera. Io ho continuato a ricevere in dono dalla cognata affettuosa i suoi libri, non tutti per fortuna, alcuni sì. Alcuni letti, altri no. L’ultimo in ordine temporale, e di pubblicazione e di regalo, è stato Cuore primitivo. La storia che De Carlo racconta propone l’eterno triangolo amoroso tra Essa, Isso e o Malamente – per dirla come in una sceneggiata napoletana. Nella fattispecie Essa è un’artista scultrice, un mix combinato di volitiva fragilità artistica, accoppiata ad un corpo non più giovane ma piacente e solido. Isso antropologo docente universitario, pedante quanto può esserlo uno che studia i comportamenti dell’intera razza umana, pesante nei giudizi, prevenuto nei rapporti con gli italiani, colui che pontifica a destra e a manca in programmi televisivi e sui social cosi, un raro esempio di inglese non innamorato dell’Italia. Il Malamente è un tatuato, operaio costruttore di tetti, privo di tatto e immaturo affettivamente. Tutti i personaggi sono descritti e vivono come da copione, come se dovessero obbligatoriamente rispettare uno stereotipo, l’artista estrosa e vitale, l’inglese noioso, l’operaio tombeur da strapazzo, senza mai scantonare, dalla prima all’ultima pagina. Un punto di vista che vorrebbe essere originale, con i tre che si fanno da controcanto ad ogni capitolo, ma poi finiscono per dispensare l’un l’altro sentimenti ambivalenti che vanno dal fastidio, all’intolleranza, al presunto compatimento, all’amore, qualche volta sì, qualche volta no, giù fino al finale, inatteso? Macché. Mi sono costretta a leggerlo, mi sarebbe sembrata una sgarbatezza verso la cognata affettuosa. Però o mi decido a svelarle il mio disinteresse verso De Carlo scrittore, oppure il prossimo romanzo lo cambierò a sua insaputa con un saggio sulle popolazioni primitive della Papuasia minore. Preferisco.


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